Avevo già deciso di dedicare una newsletter al nuovo libro di Stefano Liberti non appena ho sentito della sua uscita. Del resto, come non farlo. Solo il titolo, “Tropico Mediterraneo”, ha troppi punti in comune con questo progetto e con quello di cui mi sono occupata negli ultimi anni: la pesca e la trasformazione della biodiversità nel nostro mare (Comunque ciao, qui è Guia che scrive). Poi, a inizio ottobre, ho ricevuto un messaggio vocale da Emanuele Biscotti, uno dei pescatori che mi avevano portato sulla loro barca nella laguna di Lesina, in provincia di Foggia, quando stavo scrivendo di granchi blu.

“Quest’anno è una cosa da far paura”, dice Biscotti. “Con 12 bertovelli prendiamo fino a 8/9 quintali di granchi blu al giorno. La pesca è diventata impossibile nel lago di Lesina”.

I bertovelli sono delle reti da pesca lunghe e cilindriche attaccate a pali di castagno che non lasciano scampo a quanto ci finisce dentro. Nella laguna di Lesina vengono usate per catturare preferibilmente le anguille, ma anche cefali, latterini, spigole, orate. Ancor prima che nel delta del Po, i pescatori che praticano la paranza in queste lagune salmastre ai piedi del Gargano hanno iniziato a trovare le nasse piene di granchi blu. Negli anni si è sviluppato un po’ di mercato intorno ai nuovi arrivati, ma quando le quantità raggiungono i numeri di quest’anno, i granchi non hanno praticamente valore. Quel poco che vengono pagati ai pescatori non basta a coprire i danni che i crostacei fanno all’attrezzatura.

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Insieme al messaggio vocale, Emanuele Biscotti mi ha inviato questo video, Lago di Lesina, 4 ottobre 2024.

Il messaggio del pescatore mi ha ulteriormente ricordato l’importanza di raccontare le conseguenze che questi cambiamenti hanno sulle comunità costiere e di dar voce a un tipo di pesca che non gode della stessa attenzione degli allevamenti di vongole di Chioggia, Goro o Comacchio, decimati dalla voracità del granchio blu, di cui si è più spesso parlato.

Più o meno nello stesso periodo, sono stata poi invitata a partecipare a un convegno che si è svolto a fine ottobre all'Università di scienze gastronomiche di Pollenzo, in Piemonte, a pochi chilometri da Bra, patria di Slow Food. Per due giorni, esperti appartenenti a grandi istituti di ricerca mediterranei che si occupano di biologia marina e specie esotiche hanno discusso di come arginare gli impatti di un’altra specie invasiva che si sta facendo strada nel Mediterraneo, il pesce scorpione o lionfish. Il che mi ha fatto pensare che forse quanto successo col granchio blu possa comunque insegnare qualcosa.

All’incontro non c’erano solo enti di ricerca italiani, greci, ciprioti, turchi, monegaschi e francesi, ma anche organizzazioni non governative greche e italiane che si occupano di divulgazione, turismo e ambiente, nonché soggetti imprenditoriali. Alla base dell’iniziativa, voluta dal Laboratorio di sostenibilità circolare dell'Università di scienze gastronomiche di Pollenzo e dall’associazione Elafonisos Eco, c’era la spinta a fare qualcosa prima che la presenza del lionfish assuma nel Mediterraneo centrale le dimensioni che ha già raggiunto in Grecia, Cipro e Turchia. Anzi, l’idea sarebbe proprio quella di imparare il più possibile da quanto già studiato e messo a punto negli altri paesi mediterranei - e non solo - per cercare di attrezzarsi per tempo.

Finora gli avvistamenti in Italia sono stati molteplici, soprattutto in Calabria, ma limitati. Ciò non toglie che potrebbe essere solo l’inizio. Questo pesce, originario dell’oceano Indo Pacifico, in cinque anni è riuscito a diffondersi lungo le coste del Mediterraneo orientale. In Grecia, a Elafonisos, un’isoletta a sud-est del Peloponneso, sono comparsi da almeno sei anni, negli ultimi tre in grossissime quantità. A favorirne l’espansione, come nel caso di altri pesci tipici di climi e mari più tropicali, il riscaldamento delle acque del Mediterraneo, ma anche, come sottolineato da Stefano Liberti nel suo libro “Tropico Mediterraneo”, un insieme di altre crisi che sostanzialmente vedono gli ecosistemi del nostro mare sempre più degradati e meno pronti ad affrontare l’arrivo di nuove specie.

“Questo mare un tempo era un elemento di grande regolamentazione del clima”, spiega Liberti, raccontando il perché del titolo del suo libro: “C'era un clima mediterraneo. Adesso sta diventando un mare subtropicale".

STEFANO LIBERTI: Giornalista e filmmaker, pubblica da anni reportage di politica internazionale su testate italiane e straniere. Ha diretto vari film e scritto, tra gli altri: “Land Grabbing. Come il mercato delle terre crea il nuovo colonialismo” (2011), “I signori del cibo. Viaggio nell’industria alimentare che sta distruggendo il pianeta” (2016) e “Terra bruciata. Come la crisi ambientale sta cambiando l’Italia e la nostra vita” (2020).

L'intervista è stata accorciata e leggermente modificata per facilitarne la lettura.

“Tropico Mediterraneo” parla di specie aliene, pesca, inquinamento: cos'è che tiene insieme questi aspetti?
Quello che tiene insieme il tutto è quanto sta cambiando il Mediterraneo. Io mi sono occupato molto di terra: di quanto la crisi climatica sta impattando l'area mediterranea, e in particolare l'Italia, con eventi estremi, siccità e altri mutamenti ambientali importanti. Poi mi sono detto: però effettivamente tutto parte dal mare. Nel mare è in atto un cambiamento molto più significativo di quanto non accada sulla terra. Tuttavia, questa metamorfosi è meno visibile e viene vissuta dalla comunità mediterranea in senso largo con una certa disattenzione. Poi, andando in giro con pescatori, biologi, climatologi, mi sono accorto che la crisi climatico-ambientale nel mare Mediterraneo accelera le crisi preesistenti: sovrapesca, sfruttamento delle risorse, inquinamento e via dicendo. Così nel libro ho cercato di tenere insieme tutti questi elementi. Anche per dire che non c'è solo il riscaldamento globale che impatta sul Mediterraneo, ma anche un utilizzo e una mancata tutela del mare che accelera le crisi che stiamo vedendo. E le specie aliene che si stanno diffondendo nel Mediterraneo sono la manifestazione più evidente di questo cambiamento.

Stefano Liberti a bordo della nave dell'Ong Archipelagos a Samos durante una missione di ricognizione nell'Egeo orientale (Francesco Bellina)

Nel capitolo dedicato a Cipro metti in evidenza due diversi approcci nei confronti di questo cambiamento: uno più antropocentrico e uno più ecocentrico. Quale senti più tuo?
Per quel che mi riguarda mi sento più in sintonia con la visione ecocentrica. Detto questo, mi rendo conto che l'essere umano ha sempre plasmato gli ecosistemi. Ha sempre avuto questa pretesa di vivere dentro gli ecosistemi gestendoli. E mi rendo conto che i tempi della natura non sono necessariamente i tempi dell'essere umano. Se c'è un'invasione di specie aliene, a un certo punto la natura ritrova un suo equilibrio. Nel frattempo però le comunità locali ne saranno impattate. Abbiamo visto come le invasioni di specie aliene riguardano tutto il bacino mediterraneo e colpiscono i pescatori tanto a Cipro quanto in Tunisia, quanto nel delta del Po. Ma questo fenomeno non è altro che il sintomo di una crisi più ampia che ci dice che dobbiamo vivere un rapporto con l'ecosistema marino - ma mi viene da dire anche quello terrestre - di maggiore sintonia e di minore sfruttamento. Cioè dobbiamo recuperare il concetto di limite, perché queste specie aliene si vengono a installare anche perché alcuni ecosistemi marini sono stati sovrasfruttati o comunque l'ambiente è talmente degradato che alcune nicchie ecologiche sono rimaste sostanzialmente sguarnite e questo ha favorito l'arrivo in massa di questi nuovi inquilini del nostro mare. Dopo di che poi c'è chi dice: va bene, ma adesso abbiamo un'invasione di pesci palla maculati a Cipro, come facciamo a gestire questa cosa? E quindi provano a inventarsi delle soluzioni di economia circolare, tipo usare le pelli del pesce palla per fare delle borsette. E sicuramente è meglio usarli come tessuto piuttosto che bruciarli in discarica impiegando ulteriore energia e quindi producendo ulteriore impatto.

I modi di impiegare le specie aliene sono molti. C'è anche chi vuole ricavare dal pesce palla maculato della farina da usare come mangime per l'acquacoltura, per fare un altro esempio, o si è parlato molto di mangiare i granchi blu...
Quando parlo del granchio blu spesso mi chiedono perché in Italia non si è fatto come in Tunisia dove hanno costruito 51 impianti di trasformazione e creato posti di lavoro. Ovviamente in Tunisia non tutti sono soddisfatti. Però è una strategia che è stata messa in campo con il concorso di tutti: del governo, dei biologi, degli studiosi, dei pescatori e via discorrendo. Ma è un processo che richiede tempo. In Italia la crisi del granchio blu è di fatto esplosa in modo eclatante l'anno scorso, nel 2023. Io penso che se il granchio blu continuerà a predominare soprattutto nelle aree del delta del Po e a distruggere la molluschicoltura, alla fine anche qui si metteranno in campo delle strategie più articolate di trasformazione di quella che è una specie aliena e che diventerà una risorsa da sfruttare e anche da mangiare. Però il tema è il tempo. Ci vuole del tempo per immaginarsi delle soluzioni, elaborarle e metterle in pratica.

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