In questo numero di Lapilli torniamo a Valencia per parlare del post alluvione. Lo facciamo segnalando un fotoreportage che mette al centro le storie di alcuni sopravvissuti. Essendo poi tempo di olive, una delle colture mediterranee per eccellenza, ci soffermiamo su due storie molto diverse tra loro, una dal Libano e una dalla Spagna. Parliamo inoltre dell’ultimo rapporto della rete di esperti mediterranei sul clima e il cambiamento ambientale, Medecc, e di uno studio sulle aree ad alto rischio di collisione tra grandi navi e balene. Infine, ci proiettiamo nel futuro per dare uno sguardo a come potrebbe apparire il paesaggio svizzero nel 2075 se non venissero intraprese azioni efficaci per contenere il riscaldamento globale.

Come sempre, speriamo che questo numero ti piaccia, incuriosisca o sia fonte di ispirazione. Nel caso, l’invito è quello di inoltrarlo e condividerlo.

Questa è l’ultima edizione di Lapilli di quest’anno, ma stiamo già lavorando a progetti e storie per l’anno nuovo! Intanto, con chi riceve Lapilli+, ci risentiamo tra due settimane per l’ultima newsletter dell’anno, scritta dal nostro Davide Mancini, nonché Pulitzer Center fellow, che ci parlerà di creature marine con otto tentacoli. In ogni caso, grazie per essere stati con noi in questo 2024 denso di avvenimenti.

Allagati i campi degli sfollati a Gaza. Forti piogge hanno interessato alcune parti di Gaza, dove molti degli sfollati per la guerra tra Israele e Hamas vivono in tende in campi per rifugiati. Gli allagamenti hanno reso le condizioni di vita di chi si trova in questi accampamenti ancora più difficili. Tra le conseguenze delle precipitazioni anche l’aumento del prezzo dei teli di plastica per tenere cose e persone all’asciutto (Reuters; La Stampa).

Tempesta sulla Grecia. Forti piogge e venti di burrasca si sono abbattuti sulla Grecia orientale investita dalla tempesta Bora. Su Rodi sono caduti 30 centimetri di pioggia in 16 ore allagando strade e isolando alcuni villaggi. Il sindaco dell’isola ha chiesto lo stato di emergenza. Più a nord, sull'isola di Lemno sono morte due persone; mentre a Salonicco ci sono stati disagi dovuti al vento forte (Kathimerini; Bbc).

Piogge torrenziali in Sicilia, ma la siccità continua. Anche in Italia a novembre ci sono stati fenomeni intensi. Sulla costa orientale della Sicilia, le strade di Catania e di paesi come Acireale e Giarre si sono trasformate nuovamente in fiumi (era già successo a ottobre). Sempre in Sicilia, a Stromboli, dal 2022, anno in cui l'isola è stata colpita da un devastante incendio, ogni volta che piove molto, come è accaduto nelle ultime settimane, fango e sabbia si riversano sulle strade. I residenti stanno chiedendo interventi più incisivi per proteggersi dalla prossima grande alluvione (Il Post; Altreconomia).

Ma, nonostante le precipitazioni degli ultimi mesi, la crisi idrica continua a colpire la regione, soprattutto nella zona centrale, dove gli invasi faticano a ricolmarsi (Corriere della Sera; La Sicilia). A Palermo, i razionamenti coinvolgono ormai 250mila abitanti, circa il 40 per cento della popolazione (Ansa).

Una regione ricca d’acqua rimasta a secco. Pure in Basilicata, qualche centinaia di chilometri più a nord, l’acqua latita. La regione è ricca di acque sorgive, ma è anche quella col più alto tasso di dispersione idrica d’Italia. Secondo l'Istituto nazionale di statistica, il 65 per cento dell’acqua immessa nella rete idrica lucana viene sprecato a causa di condutture vecchie e scarsa manutenzione. La crisi di queste settimane è stata poi acuita dalle scarse precipitazioni, sia piovose che nevose, che hanno contribuito al prosciugamento del lago Camastra, un invaso artificiale che rifornisce Potenza e dintorni. Da fine settembre, il livello dell’acqua è così basso che sono scattati i razionamenti alla distribuzione. Sono quindi iniziate le polemiche tra i vari enti e partiti politici per capire di chi fosse la responsabilità di una situazione così critica in una regione così ricca di acqua. Nel frattempo, a fine novembre, la Protezione civile ha disposto tre pompe per prelevare temporaneamente acqua dal fiume Basento, che però molti temono essere eccessivamente inquinato (Avvenire; Il Post; Greenkiesta).

Il post alluvione a Valencia. A fine ottobre la regione di Valencia è stata investita da piogge eccezionali che hanno causato violenti allagamenti e la morte di più di 200 persone. Nelle settimane a seguire forti polemiche hanno travolto il governo locale per non avere efficacemente diramato l’allerta.

Subito dopo l’evento, giornalisti e fotografi di Sonda, un’organizzazione nonprofit spagnola fondata dal fotoreporter Santi Palacios che si occupa di raccontare la crisi climatica in modo visuale, sono andati nella cittadina di Paiporta, epicentro dell’alluvione e hanno raccolto e fotografato le storie dei residenti che quella notte hanno perso tutto e si sono salvati per un pelo aggrappandosi a qualsiasi cosa pur di evitare che l’acqua li portasse via (Sonda Internacional).

A sinistra: José “Pepe” Martínez, 60 anni, indica il livello raggiunto dall'acqua. A destra: uno specchio e il telefono sul muro dell'abitazione di Pepe (Júlia Cussó per Sonda Internacional).

Quello che è successo a Valencia ha messo in evidenza delle falle nei sistemi di allerta precoce che non riguardano solo la Spagna. L’Europa e tutta la regione del Mediterraneo si stanno scaldando più velocemente di altre parti del mondo e nonostante si assista a fenomeni meteorologici sempre più intensi, alcuni stati europei non si sono ancora dotati di sistemi di allerta collaudati ed efficaci. 

Nel caso spagnolo sembra essere mancato il coordinamento tra l’agenzia meteorologica nazionale che aveva previsto l’evento e il governo locale che ha mandato l’allerta sui telefoni dei residenti solo alle 20, quando la situazione era già critica. 

Una cosa simile accadde durante le alluvioni in Germania e Belgio nel 2021. Secondo alcuni esperti, anche in quel caso a venire meno era stata la coordinazione tra i vari enti preposti a monitorare le condizioni meteo, sommata alla generalizzata mancanza di educazione alla prevenzione dei cittadini, che spesso non sanno cosa fare se e quando ricevono un’allerta (Context).

La raccolta delle olive nel Medio Oriente in guerra. Novembre in molti paesi mediterranei è tempo di raccolta e spremitura delle olive per fare l’olio, anche nel Medio Oriente in guerra. Questo articolo, scritto prima dell'accordo tra Israele e Libano per un cessate fuoco, ci porta - grazie a immagini coinvolgenti - nel sud del Libano, nel villaggio di Kaukaba, dove, nonostante i bombardamenti israeliani, la gente del posto non ha rinunciato a raccogliere le olive (Nzz).

Anche in Cisgiordania, la guerra ha avuto ripercussioni sulla raccolta. Per capire cosa sta succedendo segnaliamo due storie: la prima sugli atti di violenza perpetrati dai coloni israeliani ai danni dei contadini palestinesi e la seconda su una donna palestinese uccisa da soldati israeliani mentre raccoglieva le olive a Jenin (The New Arab).

Olio “made in Italy” ma prodotto “in Spain”. L’Italia produce solo il 10 per cento dell'olio d’oliva mondiale eppure è uno dei più grossi esportatori di olio al mondo. Questo è possibile grazie al fatto che la maggior parte dell'olio che esporta non viene fatto con olive italiane bensì con olive spagnole, tunisine, greche, portoghesi turche e siriane. Allo stesso tempo, la Spagna produce circa il 40 per cento di olio mondiale, ma non riesce ad affermarsi come esportatore diretto. Il perché di questa curiosa inversione di ruoli, delle tattiche commerciali coinvolte e di come le cose stiano cambiando lo racconta un lungo articolo pubblicato su El Orden Mundial. C’entrano le politiche di Franco, il secondo dopoguerra e l’immigrazione italiana nel mondo. “La Spagna ha fatto un grosso lavoro per aumentare la produzione agricola e l’Italia invece un grosso lavoro di marketing”, dice Rafael Gutiérrez, direttore operativo di Dcoop, tra i più grandi produttori di olio al mondo, con sede vicino Malaga, Spagna.

Crisi climatica, i rischi per le aree costiere mediterranee. Nel mese da poco concluso si è svolta a Baku, in Azerbaijan, la 29esima conferenza delle parti (Cop29) della Convenzione delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici. Per sapere com'è andata rimandiamo all’ottimo Ferdinando Cotugno e alla sua newsletter Areale che ha coperto l’evento giorno per giorno. Qui ci limitiamo a segnalare uno dei due rapporti sul futuro del mare nostrum che la rete di esperti mediterranei sul clima e il cambiamento ambientale Medecc ha presentato nel corso della Cop29 nel padiglione dedicato al Mediterraneo. Nel rapporto, gli esperti hanno messo in evidenza i rischi per la fascia costiera, sempre più soggetta all’innalzamento del livello del mare, con importanti ripercussioni sulle infrastrutture e su circa 20 milioni di persone che da qui al 2100 potrebbero essere costrette a spostarsi. L’innalzamento del livello del mare significa anche aumento dell’erosione costiera, allagamenti e salinizzazione delle falde acquifere. Inoltre, le zone costiere saranno sempre più soggette a fenomeni meteorologici intensi, anche concomitanti, come mareggiate, alluvioni lampo e alte maree. In quest'ottica, il rapporto insiste sulla necessità di preservare gli ecosistemi costieri, adottando misure per rallentare l’erosione, gestire le specie invasive e limitare l’inquinamento da plastica e le emissioni da combustibili fossili (Agenparl.eu).

Come ridurre gli incidenti tra navi e balene. Uno studio condotto da ricercatori dell’Università di Washington, dell'Istituto Tethys onlus e di altri enti, pubblicato sulla rivista Science, ha quantificato e mappato il rischio di collisioni tra navi e grandi cetacei a livello globale per quattro delle specie più minacciate dal traffico marittimo: la balenottera azzurra, la balenottera comune, la megattera e il capodoglio. Le collisioni rappresentano infatti una delle principali cause di morte per queste specie. 

La maggior parte del traffico marittimo avviene nel 92 per cento delle aree dove le balene sono più comunemente presenti, ma solo nel 7 per cento di queste aree esistono strategie per prevenire le collisioni.

Una delle aree a più alto rischio è il Mediterraneo, uno dei mari più trafficati al mondo. Lo studio evidenzia come interventi semplici e a basso costo possono significativamente ridurre il rischio di collisioni. Ad esempio, attivando sistemi di allerta per informare le navi della presenza di balene, consentendo loro di ridurre la velocità, o modificando leggermente le rotte navali per evitare le zone più frequentemente visitate dai cetacei (come è stato fatto nel mar Ionio, al largo della Grecia, per prevenire le collisioni con i capidogli locali).

La maggior parte delle aree in cui si concentrano le balene si trova all'interno dei confini nazionali, vicino alla costa, per cui i singoli paesi potrebbero implementare autonomamente misure di sicurezza evitando complessi trattati internazionali. Lo studio inoltre stabilisce che basterebbe implementare misure anti collisione su un ulteriore 2,6 per cento dell'oceano, per proteggere le aree a più alto rischio.

Le immagini indicano il grado di sovrapposizione tra le quattro specie di grandi cetacei prese in considerazione e il traffico navale tra il 2017 e il 2022 (Anna Nisi).A: Mappa di distribuzione globale media per balenottera azzurra, balenottera comune, megattera e capodoglio. Le aree in giallo e verde sono quelle maggiormente usate dagli animali.B: Mappa di distribuzione globale del traffico navale. Le aree gialle e verdi sono quelle a traffico più intenso.C: Sovrapposizione di A e B. Le aree in giallo rappresentano traffico elevato ma bassa concentrazione di animali; quelle viola indicano, al contrario, alta frequentazione di cetacei e bassi livelli di traffico.

Il paesaggio svizzero del 2075. Segnaliamo infine questo articolo interattivo in cui gli autori, seguendo il corso del fiume Aar, che dalle Alpi bernesi arriva a sfociare nel Reno, mostrano come potrebbe apparire il paesaggio svizzero nel 2075 qualora le temperature aumentassero significativamente a livello globale - ovvero non venissero messe in pratica misure realmente effettive di contenimento delle emissioni. Secondo le proiezioni scientifiche alla base delle elaborazioni grafiche che accompagnano il pezzo, nel 2075 non ci saranno più ghiacciai, la linea delle nevi perenni sarà più in alto, le foreste si spingeranno a quote superiori e i fiumi saranno più caldi. Cambieranno anche il tipo di coltivazioni e di piante. Insomma, il paesaggio svizzero sarà molto diverso da come lo conosciamo (Nzz).

GUGLIELMO MATTIOLI
Producer multimediale, ha contribuito a progetti innovativi usando realtà virtuale, fotogrammetria e live video per il New York Times. In una vita passata faceva l’architetto e molte delle storie che produce oggi riguardano l’ambiente costruito. Ha collaborato con testate come The New York Times, The Guardian e National Geographic. Vive e lavora a New York da più di 10 anni.

Grazie per aver letto fino a qui. Ci vediamo a gennaio, o prima con Lapilli+.

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